Il calcio è lo sport più amato dagli italiani ed è sempre stato usato dalla politica per carpire e consolidare il consenso. Il fascismo, irrompendo sull’opinione pubblica dopo aver soppresso nel sangue ogni forma di dissenso, come tutti i totalitarismi, trasformò il pallone in un vigoroso strumento della sua ossessiva propaganda. Affidò a Mussolini, impropriamente definito il primo sportivo d’Italia, tutto il merito delle vittorie, costruendo una spiegazione molto semplice: negli Anni Trenta gli azzurri avevano vinto tutto grazie all’uomo nuovo che era sorto grazie al regime, grazie allo slancio e alla riscossa che il duce aveva impresso al paese. Una narrazione, quella della rinascita, ancor oggi radicata nel populismo politico, spesso travestito da moderatismo. Sotto il fascismo, l’Italia del calcio era realmente fortissima. I giocatori di serie A costituivano un blocco solido che prendeva spunto dalla tradizione danubiana e i giocatori oriundi - sottratti alle nazionali sudamericane con la scusa di un nonno italiano - davano quell’apporto di fantasia e velocità che resero gli azzurri micidiali. Ma la squadra di Pozzo, nel 1934, vinse il mondiale anche grazie a incredibili favori arbitrali: ai nostri erano consentiti gravi falli e pestoni che agli avversari non erano perdonati; quando i nostri segnavano non venivano visti spintoni e fuorigioco, mentre agli avversari venivano annullati gol per falli sospetti o fuorigioco inesistenti. Arbitri pressati direttamente da emissari del regime, con promesse di finalissime da dirigere. Designati a tavolino e non sorteggiati. Arbitri che, tornati nelle loro nazioni, furono messi al bando e tolti dai campi. E mentre vinceva, quell’Italia, salutava Mussolini in tribuna in un ostentato saluto fascista, mostrava la casacca con un lugubre fascio littorio cucito al fianco dello stemma sabaudo. Meno polemiche sportive, ma molte più contestazioni politiche ai mondiali del 1938, in Francia. L’Italia si era ormai esposta a livello mondiale come imperialista, dittatoriale e guerrafondaia, aveva espulso ogni voce critica e arrivò persino a indossare la casacca nera anziché quella azzurra, in segno di sfida verso il mondo intero. Era un mondiale assurdo, con l’Austria che si era ritirata in quanto estinta dall’occupazione nazista, la Spagna spazzata via dalla guerra civile, il rumore della guerra che rombava da vicino. E gli italiani giocarono come se nulla fosse, bombardati dalle fantastiche storie del regime, innalzando il saluto romano e sfidando i fischi delle tribune, onorando il duce in trionfo con la coppa al cielo. Pronti a seguire Mussolini nella seconda guerra mondiale. In mezzo: l'Olimpiade nazista di Berlino e i crimini di guerra italiani in Africa. All'orizzonte: le leggi razziali e l'assalto all'Europa, a braccetto con Hitler, mentre gli italiani silenti pensavano e festeggiavano orgogliosamente i campioni. Ancora oggi la propaganda politica, in assenza di contenuti, si aggrappa allo sport: mette il cappello su ogni medaglia e contrabbanda eventi ordinari in benedizioni del potere in stile, questo sì, da panem et circenses. I “Mondiali della vergogna” parla di calcio, di arbitri corrotti e di fascismo; ma anche dei politici contemporanei. Giovanni Mari, giornalista, si è a lungo occupato dello scontro tra i partiti italiani per Il Secolo XIX. Appassionato studioso della propaganda politica, per People ha scritto “Genova, vent’anni dopo”, un racconto a posteriori sul fallimentare e drammatico G8 del 2001, di cui fu testimone. Tra i suoi libri, il romanzo storico “Klausener Strasse, 1970: il cadavere di Hitler nelle mani del Kgb” e il saggio “La propaganda nell’abisso” sull’ultimo farneticante giornale di Goebbels, redatto nel bunker di Berlino.